In un contesto globale che vede l’inflazione in calo e l’economia, seppur con qualche accenno di debolezza (vedi la fiducia dei consumatori americani calata più del previsto nell’ultimo mese), mantenere una buona traiettoria di crescita, nelle ultime settimane è diventata sempre più evidente la crisi del settore automotive, determinante per la tenuta economica di alcune aree, ma comunque uno degli indicatori più importanti per valutare l’andamento dell’industria manufatturiera. A questo, per quanto possa apparire assolutamente ininfluente, va aggiunto il particolare momento che sta vivendo, in Europa, il sistema bancario, dopo l’avvio, da parte di Unicredit, della “campagna di Germania” per la conquista di Commerzbank, la seconda banca tedesca.
Le difficoltà dell’industria automobilistica trovano spiegazione in diversi fattori. Si fa un gran parlare di “green deal”, vale a dire la transizione ecologica che ha, a livello globale, come obiettivo la riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030 e la neutralità climatica entro il 2050. Una transizione che, per forza di cose, deve passare prima di tutto dagli impianti produttivi industriali e dai Paesi (vedi l’area del Pacifico, forse quella che ha maggiori responsabilità in questo senso) nei quali ancora oggi l’inquinamento raggiunge livelli non più accettabili. Ma che coinvolge, per forza di cose, l’industria automobilistica (si calcola che nel mondo circolino qualcosa come 1,5 MD di autovetture: circa 415 ML in Europa – 300ML solo nell’area UE -, 315 ML in Cina, 292 ML negli USA, etc).
Ovvio che negli ultimi anni la “pressione” sul settore siano state notevoli, con le case automobilistiche che hanno dovuto sopportare investimenti giganteschi per avviare la trasformazione per “traslare”, anno dopo anno, la produzione dai motori a combustione a quelli elettrici. Con la conseguenza che hanno “scaricato a valle” i maggiori oneri: oggi sul mercato vi sono moltissimi modelli elettrici (si è detto pochi giorni fa della Norvegia, dove, ad agosto, oltre il 94,7% delle nuove immatricolazioni ha riguardato auto elettriche), ma a prezzi certamente superiori ai modelli tradizionali.
Ma forse quello che blocca ancora di più il loro acquisto sono i costi gestionali (oggi un “pieno” elettrico non costa molto meno rispetto a quello a benzina), con la differenza che il sistema probabilmente non è ancora adeguato al mercato, con il rischio di tempi di attesa lunghi. Senza contare, tra le altre cose, l’autonomia tutto sommato limitata. Fermo restando, peraltro, che produrre energia elettrica in molti casi inquina, per cui anche i “motori verdi” forse, alla fine, poi non sono così “verdi”.
In tutto questo, sul mercato si sono affacciati produttori in grado di offrire i propri prodotti a prezzi certamente più competitivi (vedi, tanto per cambiare, la Cina). E il “gioco è fatto”: abbiamo quindi nuovi players che tengono “in smacco” case automobilistiche che hanno fatto la storia dell’auto mondiale, i cui costi di produzione sono enormemente maggiori e che, attualmente, non hanno la forza per “spingere” oltre modo sugli investimenti.
Ecco il motivo, per es, per cui Stellantis ha deciso di entrare in Leapmotor, brand cinese che sta per sbarcare in Europa, grazie, appunto, agli stabilimenti che il gruppo italo-francese metterà a disposizione, a partire dalla Polonia.
Pensare, quindi, come il “piano verde” attualmente prevede, che l’Europa arrivi alla “transizione” entro il 2035, anno in cui si dovrebbero commercializzare solo autovetture a motore elettrico, diventa ogni giorno più difficile, con i Governi che già si stanno muovendo per convincere la Commissione Europea ad una proroga (quello che hanno già fatto gli inglesi).
Altro tema quello che riguarda il sistema bancario (peraltro determinante per assicurare la crescita). Anche in questo ambito il problema del “dimensionamento” ha una valenza critica, come lo stesso Draghi ha evidenziato nel suo recente rapporto sulla Competitività (con riferimento all’Europa). Infatti, nei primi 10 gruppi bancari al mondo per dimensioni non ce n’è uno europeo. E, come scritto oggi in un editoriale da Federico Fubini sul Corriere, per trovarne uno bisogna andare oltre il 25° posto.
Oggi la Germania, come sappiamo, sta attraversando forse uno dei momenti più difficili della sua storia economica. Non è un caso, probabilmente, che, se guardiamo alla UE, tra le prime 10 banche dell’Area non ce n’è una tedesca. La quale, negli anni scorsi, qualche problemino l’ha avuto (oggi vale meno della metà di Intesa San Paolo e della stessa Unicredit) e non ha certo la forza di aiutare la storica rivale. Abbiamo, quindi, il paradosso della prima economia UE che non vede una sua banca tra le prime 10 che operano nell’area a cui appartiene. Qualcosa vorrà pur significare (oltre al fatto che le autorità di quel Paese hanno rivolto le loro maggiori attenzioni, in questi anni, all’industria manufatturiera piuttosto che a quella “finanziaria”, probabilmente dimenticando che senza quest’ultima è difficile realizzare la prima).
Fermo restando che, ancora una volta, il Paese che ha sempre predicato l’integrazione europea, nel momento in cui vede una propria azienda che potrebbe essere “sfilata”, alza qualche barricata….
Dopo l’exploit di ieri (rialzi nell’ordine del 4%), a seguito delle decisioni della People’s Bank of China, anche questa mattina i listini cinesi continuano la loro marcia.
Shanghai sale dell’1,28%, mentre a Hong Kong l’Hang Seng cresce dello 0,73%, portando a quasi il 14% il rimbalzo dai minimi dei primi giorni di settembre.
Si appresta a chiudere sulla parità, a Tokyo, il Nikkei.
In rialzo, a Taiwan, il Taiex (+1%).
Sulla parità il Kospi a Seul.
Futures al momento all’ingiù su tutte le piazze, con cali compresi tra il – 0,20 e – 0,60%.
Ritraccia un pochino il petrolio, con il WTI a $ 71,31. – 0,45%.
Gas naturale Usa di nuovo vicino a £ 3 (2,829, + 1,18%).
Oro che ritocca il massimo storico, issandosi a $ 2.655.
Spread in discesa, a 132,6 bp, ai minimi dell’anno.
BTP al 3,48%.
Bund 2,15%.
Stabile il treasury (3,74%).
€/$ a 1,1189, con l’€ in leggero rafforzamento.
Bitcoin che si porta sopra i $ 64.000 (64.040).
Ps: l’Italia spenderà, per interessi sul debito pubblico, quest’anno, circa € 90 MD (88,3 per l’esattezza), pari a circa il 4,1% del PIL (che entro il 2026 dovrebbero superare i 100 MD). Un altro 16,3% se ne va per le pensioni (€ 347 MD la spesa per quest’anno, contro una media europea del 12,9%), con prospettive che preoccupano non poco, visto l’andamento della demografia e il continuo maggiore invecchiamento della popolazione. Non è poi così difficile capire perché il nostro Paese fa così fatica a mantenere il passo della crescita…